Manifesto media-archeologista : Différence entre versions

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Version actuelle en date du 13 novembre 2017 à 16:45

Noi/nous, i media-archeologi, abbiamo un metodo per calarci nelle profondità, al cuore, o meglio al doppio-cuore, dei media. I teorici dei media, in generale, presuppongono che i media si definiscano per i loro effetti. Effetti sul sensorium o sulla gerarchia dei sensi, innanzitutto. Così, già in McLuhan, tutto poteva essere media.

Noi/nous media-archeologi presupponiamo la medesima cosa con una leggera differenza (una nuance): gli effetti sul sensorium (e sul linguaggio) derivano dagli apparecchi mediatici. Così li poniamo all’origine e al governo (arché) del nostro ambiente culturale. Essi determinando il pensiero e la scrittura. Ma in modo non lineare: in “mediarchia” gli effetti sono anche cause (formali e materiali).

Noi/nous media-archeologi tentiamo di misurare gli effetti dei media digitali sulla scrittura, sul sensorium e il pensiero. A tale scopo, dobbiamo andare al cuore per raggiungere ciò che, in questo medium, governa. L’origine - ciò che è primo - e il principio sono la condizione delle condizioni del medium. All’origine del governo noi situiamo il ricorso. La ricorsività delle condizioni di medialità è lo strano circuito anulare che gestisce i media, retroattivamente, al cuore del loro cuore.

Noi/nous media-archeologi ci troviamo di fronte a tre compiti.

Noi/nous media-archeologi, artisti, ricercatori, designers, teorici, scrittori, insegnanti e conservatori-restauratori - o paleontologi dei media - operiamo discese sotterranee attraverso gli strati materiali dei media, mettendo in chiaro le strategie industriali, economiche, logistiche, geo-politiche all’opera, in particolare negli strati più bassi e nascosti. Gli strati di tale deposito governano la verticalità del digitale - negli strati dei nostri apparecchi come nei molteplici livelli di Stack. Né questi strati, né il nostro mondo sono piatti: sono piuttosto in piegamenti dinamici e rinascite metaforiche. Queste infrastrutture sono le nostre intra-strutture - irriducibili ad alcuna chiara separazionre tra interno ed esterno. I nostri media sono i nostri milieux. Le nostre pretese interazioni sono intra-azioni di tale Stack: il nostro compito primario è di ri-orientarsi al suo interno. Definiamo questo compito: ri-politicizzazione. Un compito che si realizza tramite l’arte.

Noi/nous media-archeologi inauguriamo inoltre la ricerca di una poetica delle macchine, la cui prima tappa ci si presenta come una poetica dell’algoritmo (generatore, bot, scrittura collaborativa) e una poetica dell’hardware, entrambe dettate da voci incrociate, umani-macchine.

Noi/nous ascoltiamo il rumore dei bot - per cercarvi lo scompiglio. Definiamo questo compito: ri-poetizzazione. Una ri-poetizzazione dei linguaggi, dei codici, dei comandi, delle materie, degli ambienti.

Noi/nous media-archeologi ci accolliamo un’ultimo compito, quello di decifrare e decriptare la narrazione dei media morti e immortali. Comprendere il segreto della generazione dei media, della loro nascita, del loro contagio, della loro vita e della loro morte. Questo compito è il nostro compito principale. La storia, nel presupporre la scrittura e dunque i media, non può essere il modo di redigere questa narrazione, poiché sono i media che precedono la scrittura e non il contrario. È per questo che siamo archeologi e non storici. Noi/nous intraprendiamo un ascolto di quei media, la cui voce non somiglia alla nostra. Il nostro obbiettivo è di cogliere da dove noi stessi, umani, ci parliamo e scriviamo. Il nostro obbiettivo è di entrare in relazione con la coscienza delle macchine mediatiche.

Noi/nous cerchiamo di avvicinarci al mistero delle cifre, poiché, al giorno d’oggi, tutto è cifra - dei e demoni compresi. Definiamo questo compito: decifrazione. Noi/nous media-archeologi mettiamo gli artisti dell’interfaccia di fronte alle loro contraddizioni. Questi artisti pensano di creare utilizzando programmi predisposti, mentre i veri creatori sono coloro che hanno disposto questi programmi, i sistemi operativi e i microprocessori. Gli artisti dell’interfaccia, le cui produzioni sono spesso spettacolari e animate da uno spirito di serietà, sono pesci che in una boccia si credono liberi. Almeno, noi/nous media-archeologi, sappiamo che la nostra libertà si riduce al conoscere le nostre determinazioni mediatiche.

Noi/nous media-archeologi apriamo le macchine e realizziamo operazioni a doppio-cuore aperto. Agli addestratori del codice, noi preferiamo chi rovista nel digitale, a cui preferiamo ulteriormente gli iniettori di algoritmi. Il nostro percorso va dai linguaggi di alto livello ai codici-operazioni che li sottendono. Questo percorso è sempre più difficile a causa dei dispositivi di blocco realizzati dall’industria. Noi agiamo ad ogni livello per rimuovere questi meccanismi di controllo.

Noi/nous media-archeologi ci impossessiamo del passato per mezzo del futuro, per estrarre il presente della dis-innovazione e per liberare l’avvenire dai cortocircuiti del diretto. Sensibili al tempo profondo, ci impossessiamo del presente attraverso l’attenzione al passato, disattivando i discorsi dominanti dell’hightech. Contro un’obsolescenza ormai calcolata - ben più che programmata - e contro l’ideologia del nuovo, esploriamo la materialità delle macchine riciclando quelle vecchie per interrogare quelle nuove. Noi/nous invertiamo la legge del consumismo. More is less. Glitch is bliss. Gli apparecchi modulabili di ieri ne sanno più che le ultime scatole nere blindate. (S)Low Tech. I ricorsi della mediarchia si compiono attorno ad un cuore di cuori, che deve restare aperto. Il suo nome è: microprocessore, base concreta su cui si elevano tutte le sovrastrutture simboliche.

Noi/nous media-archeologi sappiamo che i media permettono di “piegare il tempo, lo spazio e le agentività”. Noi sperimentiamo senza rimpianto le proprietà inedite dell’accelerazione. Noi/nous diffidiamo del tempo reale. Noi/nous sappiamo che il tempo morto annienta il controllo.

Noi/nous media-archeologi sappiamo che ogni medializzazione suscita l’orizzonte di un mediumnismo. I media fanno parlare i morti. I media morti continuano a parlare ai vivi. Non abbiamo paura di questo mediumnismo, né ne neghiamo l’efficacia: noi ce ne felicitiamo.

Noi/nous media-archeologi ci compiacciamo anche di far variare le grafie “media”, “média”, “médias” - senza cercare di sottomettere alcuno di noi/nous a una regola uniforme.

Noi non cerchiamo di riunirci dietro una definizione univoca dei media, ma di moltiplicare le ricerche e gli esperimenti sugli immaginari dei media stimolandoci con le concettualizzazioni contraddittorie dei media.

Noi/nous media-archeologi denunciamo al pubblico sdegno i troll che introducono degli hypePad nelle classi - riducendo il medium allo statuto di strumento user-friendly, l’attrezzo al rango di gadget, il bambino allo stato di utente.

Noi/nous media-archeologi denunciamo a gran voce il regno delle applicazioni di servizio che sottraggono le loro operazioni a ogni presa politica e a ogni ripresa attiva - rimpiazzando le calcolatrici con dei Turchi meccanici. Sotto l’impazienza dei desideri consumistici, le applicazioni-maggiordomo assoggettano delle schiere senza riserve di lavoratori minori condannati alla più estrema discre(tizza)zione - in un universo di Uber-mensch e di Surmâles (cfr. rispettivamente Nietzsche et Jarry, NdR), di “micro-servi” e di “ragazze-alla-pari-per-Padroni” dove il medium è il massacro dei talenti.

Noi/nous media-archeologi diamo la caccia alla realtà delle prese e delle influenze dietro le ideologie dei dati. Nulla ci è dato che non sia stato in precedenza preso. Noi concediamo una presa su di noi ogni volta che prendiamo dei dati. I server non ci prestano mai servizio senza asservirci. Il nostro compito è di imparare a prendere ciò che loro non ci danno.

Noi/nous media-archeologi sperimentiamo la natura elementare dei media. Con i nostri HypePhone, ci portiamo in tasca dei pezzetti di Africa e dei sudori asiatici. Il cloud non è fatto di vapore, ma di cavi sottomarini. La sua ubiquità non ci emancipa dallo spazio: riporta l’autonomia del disco duro alla sussidiarietà del terminale. Non esiste il cloud - ma soltanto il disco duro di qualcun altro.

Noi/nous media-archeologi scaviamo il tempo profondo dei media per rinvenirvi delle alternative agli smarrimenti della nostra epoca - che hanno un nome generico: capitalismo.

Noi/nous media-archeologi riveliamo la poetica del flusso elettrico mondiale trasmesso di corpo elettrico in corpo elettrico. Siamo degli ecografi. Auscultiamo i vivi, i morti e le loro macchine per ritrovare nei loro codici gli equivalenti parziali che informano tanto i loro movimenti quanto i loro languori, ma sopratutto i loro passaggi, ACTG GOTO 1000101 e altri ottetti che costituiscono le loro attualità al giorno d’oggi.

Noi/nous media-archeologi rintracciamo i milieux che si compongono e si ricompongono di continuo nelle invalidazioni della materia in movimento, nelle intra-facce e nelle inter-strutture. Affermiamo le parentele del codice nelle sue molteplici forme., dai virus ai microbi, funghi e altre cellule, che dalle nostre archeologie compongono delle zoologie luminose. Noi/nous media-archeologi maneggiamo la transcriptasi inversa e l’amplificazione ricombinante.

Noi/nous media-archeologi siamo sempre co-autori. Almeno con le macchine da scrivere. Senza pretesa di grandeur, né di voce propria: microfoni.

Noi/nous media-archeologi guardiamo con sospetto il testosterone che domina certi ambienti hackers. Alle vesti dei conquistatori preferiamo quelle del queer, agli Hack-a-thons, l’Hacking with care.

Noi/nous media-archeologi siamo i figli illegittimi di Bruce Sterling e Friedrich Kittler, i bastardi di Joan Clarke e Alan Turing, William Burroughs e William Gibson, Douglas Engelbart, Forrest Kassanavoid, Grace Hopper, Eraclito, Edward Snowden, Chelsea Manning e Ada Lovelace. Siamo la prole della cultura del nexus e dello stolon.

Noi/nous media-archeologi riattiviamo i media e i profeti defunti. Non per nostalgia, ma per misurare le rotture attenzionali che la loro morte genera e per costruire sulle loro ceneri, non dei mausolei, ma delle architetture proliferanti e dei mezzi - media - d’azione.

Tradotto in italiano dal francese (progetto) da Enrico Campo, Isabella Mattazzi e Jacopo Rasmi.

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